L’ Orlando Furioso di Ariosto raccontato da Italo Calvino - di Teresa Vecchio

Einaudi 1970: “Italo Calvino aveva sempre confessato la sua ammirazione per l’Ariosto, ammirazione non generica per un grande ormai consacrato, ma fondata su una profonda analogia nel concepire ed esprimere la creatività fantastica. Per entrambi gli scrittori, infatti, la creatività non è la momentanea efflorescenza dell’indeterminato, dell’ancora informe, del casuale, ma l’infinita, inesauribile possibilità di interpretare e reinterpretare, sotto angoli di visuale sempre nuovi, il già conosciuto, il già definito, il patrimonio rigorosamente (ma non rigidamente) strutturato del nostro pensiero. Da una simile sintonia è scaturito questo racconto calviniano della storia di orlando che diventa matto furioso: opera sull’opera, certo, ma anche testo autonomo; operazione culturale, ma anche narrazione vera. ”
Calvino, fedelmente, riporta del testo in ottave di Ariosto una ventina di nuclei narrativi, intervallati da suoi personali interventi sulla vicenda narrata, consentendo così a lui scrittore di lasciare la sua inconfondibile impronta artistica, senza togliere al lettore il piacere di godere della musicalità dei versi autentici. Il poema è un vero e proprio intreccio di innumerevoli storie che avvengono sullo sfondo dello scontro tra i cristiani dell’Imperatore di Francia, Carlo Magno e i maomettani del re Agramante, i cosiddetti “infedeli”.
Paladini cristiani e arabi, amazzoni e soldati semplici si scontrano, duellano, muoiono per amore dell’amata e bella fanciulla, per rivendicare un oltraggio subito o per recuperare ciò che è stato loro tolto e rubato, con il loro stesso valore e la forza o con l’aiuto di maghi o streghe, negromanti o oggetti magici d’ogni specie. Orlando è solo uno di questi tanti paladini che entra ed esce di scena, capitolo dopo capitolo lo si vede sempre di più perdere il senno e impazzire per l’amore non corrisposto della bella Angelica, figlia del re degli infedeli. Questa, mandata nel campo nemico per distrarre i combattenti, è perennemente inseguita dai più celebri paladini cristiani che cedono alla bellezza della fanciulla e si scontrano tra loro pur di ottenerla. Lei superba però fugge e non si cura di alcuno di questi, fino a quando non si innamora di un soldato semplice e valoroso di nome Medoro: mentre cura le ferite del moribondo sente che qualcosa si muove in quel gelido cuore, una passione bruciante per il ragazzo che poi deciderà appunto di sposare. Giunta per caso la notizia ad Orlando, che imperterrito inseguiva la bella principessa, affrontando innumerevoli imprese, la follia lo coglie e il senno lo abbandona definitivamente e fugge, chiuso in un’ampolla, sulla Luna, lasciandolo cieco di gelosia. Entra nella bestialità più cieca, si spoglia dell’armatura e dell’invincibile sua spada Durindana (appartenuta ad Ettore di Troia), simboli del suo valore e della sua inesauribile forza, uscendo dalla misura umana e travolgendo tutto ciò che trova davanti alla sua corsa sfrenata. “In questa nuova e inattesa incarnazione d’ossesso ignudo che sradica le querce, Orlando diventa, se non un vero e proprio personaggio, certo un’immagine poetica vivente, quale non si era mai stato nella lunga serie di poemi che lo rappresentavano con elmo e armatura.”
Sarà poi Astolfo, figlio d’Ottone re d’Inghilterra, accompagnato da Giovanni l’evangelista, a recuperare sulla Luna, a cavallo di un Ippogrifo, il senno d’Orlando e a restituirglielo poi. In contemporanea a questi episodi si snodano tante altre storie, come quella della celebre amazzone Bradamante e l’infedele Ruggiero: la loro è una vicenda predestinata, i due si innamoreranno perdutamente sul campo di battaglia, si sposeranno dopo innumerevoli peripezie e la conversione di lui, per dare inizio alla discendenza degli Estensi di Ferrara. Ma questo stesso destino crudele imporrà la successiva morte di lui per mano di un membro della famiglia rivale dei Maganza. Seguono le vicende di Rinaldo, fratello di Bradamante e cugino di Orlando, di Rodomonte, invincibile soldato dell’esercito arabo, di Mandricardo e Doralice, Brandimarte e Fiordiligi, delle sorti dei due sovrani rivali Agramante e Carlo Magno, di Gradasso, di  Sacripante, della sfortunata Olimpia abbandonata con l’inganno su un’isola deserta dal suo innamorato crudele Bireno, dopo aver rischiato per lui la vita, e altre ancora…Ma quella che più mi ha colpito è quella di Zerbino e Isabella, insieme quasi estranei a tutti gli altri personaggi del testo, e le sorti serbate a quest’ultima, tanto sciagurata e addolorata della vita dal destino riservatale da commuovere uno dei più cruenti personaggi del libro che per molto tempo resterà a vegliare il mausoleo a lei innalzato. Scrive di loro così Calvino: “La ferita di Zerbino è di quelle che avrebbero fatto sorridere Orlando o Ruggiero o Rodomonte, ma Zerbino è fatto di carne e ossa e vene umane, e la guerra per lui è rischio di morte, non gioco. Non basta questo, però, per dire che i personaggi come Zerbino e Isabella sono più veri dei giganteschi ammazza-sette. Essi seguono semplicemente un’altra logica: sono eroi di una storia lacrimosa, e in mezzo alle avventure grottesche e truculente s’aprono, con la loro vita e la loro morte, uno spazio poetico di dimensioni e sensibilità diverse.”
Molte vicende sono raccontante e si susseguono, una intrecciata all’altra, a comporre un complicato quadro: si propone infine, silenziosamente, l’immagine del labirinto. Labirintico era il palazzo di Atlante, un potente stregone e ingannatore, labirintico è il maestoso poema presentato da Ariosto e commentato ancor più grandiosamente da Calvino, e tanto labirintica è la realtà e soprattutto la nostra mente, origine della creatività.

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